25 Giugno 2018

Quando il fisioterapista non è la persona adatta

Non solo di fisioterapia vive l’uomo!

Nell’indole di chi svolge una professione sanitaria, è insito il desiderio di essere d’aiuto alle persone che sono in uno stato di sofferenza fisica o psicologica.

Per poter essere all’altezza di ciò che desideriamo tuttavia, il nostro obiettivo principale deve essere quello di formarci in modo adeguato a raggiungere un risultato soddisfacente per il paziente.

Tutto quello che mettiamo in atto nel nostro quotidiano lavorativo, ha questo scopo.

E non intendo solo ciò che è strettamente legato al trattamento in sé ma, anche ciò che deriva dalla nostra capacità di relazionarci con il paziente.

Dobbiamo essere in grado di entrare in empatia con lui e con il suo disagio.

Con tutto ciò che questo comporta

In particolare, mi riferisco al ben noto fenomeno del transfer ovvero, quando c’è un trasferimento di emozioni dal paziente al terapista che, spesso, non ha le armi per difendersi.

Può sembrare una questione banale e di poco interesse da parte del paziente, che potrebbe anche pensare:

“che c’è di male se il mio terapista mi ascolta, mi comprende ed è partecipe della mia sofferenza”?

Dal punto di vista umano forse nulla.

Dal punto di vista professionale invece, l’eccessivo coinvolgimento può essere un problema.

Ai miei colleghi fisioterapisti raccomando sempre una cosa, ovviamente in senso figurato: non fatevi travolgere dalle emozioni!

Il fisioterapista deve mantenere la propria freddezza, essere sicuro di avere la mente lucida sia in sede di valutazione sia, durante il trattamento.

Deve avere la coerenza di capire se, il trattamento è in una fase di stallo che non consente di sperare di arrivare ai risultati sperati.

Ma ancora più importante, deve avere la capacità di capire quando  il trattamento non va nemmeno iniziato.

Mi spiace ma, non sono io la figura di riferimento adatta a te

Ho fatto cenno nei precedenti articoli sull’ernia del disco, che ci sono situazioni in cui, il terapista deve avere l’abilità di capire che la gravità del quadro clinico, necessita di un approfondimento diagnostico o di uno specifico consulto medico.

Per far questo, rimanendo nel quadro specifico di un’ernia discale, il terapista deve essere in grado di:

  • capire la severità del quadro clinico sulla base del comportamento del dolore nelle 24 ore e delle attività evocative
  • capire se ci sono situazioni di cautela da rispettare
  • eseguire un corretto esame neurologico (test di forza, esame della sensibilità superficiale e profonda, esame dei riflessi)
  • leggere con buona accuratezza e padronanza le immagini derivanti da Risonanza Magnetica o TAC.

Senza queste competenze, è alquanto improbabile pensare di portare a risoluzione un problema.

Anzi, è probabile che si esponga il paziente ad un rischio ancora superiore con un trattamento basato su una valutazione incompleta.

Per cui, fidatevi del fisioterapista che è in grado di dirvi che la figura professionale che fa al vostro caso è ad esempio, il neurochirurgo piuttosto dell’ortopedico ecc.

Diffidate invece, del fisioterapista che si accanisce nel trattamento, accecato dal desiderio di guarirvi o molto peggio, dal guadagno che gli garantite.

Fidatevi se vi dico che negli oltre 20.000 trattamenti eseguiti negli ultimi 12 anni, le occasioni in cui mi sono sentito più gratificato, sono state quelle in cui non ho eseguito il trattamento perchè ho preventivamente capito, che la situazione era troppo urgente e grave da poter essere presa in carico.

Non avevano bisogno di me ma, di un altro professionista.

Ed essere in grado di capirlo e di ammetterlo, spesso fa la differenza tra il guarire completamente o meno.

Lo dimostrano sia la gratitudine che quei pazienti mi hanno espresso sia, il rispetto professionale che mi hanno mostrato i medici a cui li ho indirizzati.

Sono stati per me, motivo di grande orgoglio.

Alla prossima,

Andrea


Tags

approfondimenti diagnostici, ragionamento clicnico, situazioni di cautela


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